Oggi “STALKER” intervisterà il famoso architetto italiano Gregorio Carboni Maestri. Gregorio lavora come architetto presso la DIA Dialectique Architectures a Bruxelles. Insieme a lui cercheremo di capire, perché gli edifici stanno diventando abbandonati, in quali modi potrebbero essere trasformati e chi sono queste persone che amano visitare questi siti “abbandonati”.
-Buongiorno Gregorio! Puoi spiegare per quale ragione case, edifici, luoghi vengono abbandonati?
Ciao! Allora, guerre, crisi economiche, fallimenti, decrescita della popolazione, speculazioni edilizie. Tante possono essere le cause. L’abbandono di un edificio è sempre un fallimento per la collettività: una potenzialità inespressa, un’occasione persa in termini di organizzazione sociale. Lo spazio del pianeta è limitato, e un edificio deve sempre essere visto come “una banca di materiali”, un’energia economica, umana, accumulata sotto forma di cemento, pietre… E queste energie devono essere utilizzate, sfruttate, godute, vissute. Non ha senso costruire alcunché se a qualche chilometro di distanza si ha qualcosa di abbandonato. Un edificio abbandonato è sempre un segnale di qualcosa che non va, che non funziona in un paese.
-Come mai in alcuni paesi Europei ci sono più luoghi abbandonati, e in alcuni meno? In quali paesi potrebbero essercene di più? Qual’è la causa di tutto questo a suo parere?
Un edificio, un luogo in stato d’abbandono è sempre segnale di una disfunzione sociale; di una disorganizzazione dei modi di organizzazione collettivi, di una fragilità economica. Si pensi a città come Detroit, dei centri storici di molte città portoghesi, dove una grande parte degli edifici storici sono abbandonati. O di km quadrati di edifici produttivi italiani lasciati all’invasione delle erbacce.
Ciò è ancora più chiaro in paesi post-socialisti. Nei paesi ad economia pianificata l’architettura, il costruito, gioca un ruolo essenziale. Anche nelle economie socialiste più arretrate e disorganizzate, come l’Albania o la Romania, costruire scuole, università, asili, case popolari, teatri, cinema, istituti, stazioni è stato fondamentale nel processo di riorganizzazione della società. Si trattava di una “messa in ordine” della vita delle persone attraverso luoghi e spazi collettivi. L’economia era organizzata e più o meno autonoma: lo stato si prendeva carico di costruire fabbriche, luoghi di produzione, ecc., per aumentare la ricchezza, ridistribuire lavoro, conoscenza, indipendenza in relazione alle grandi potenze industriali dell’epoca.
Dopo la Caduta del Muro di Berlino tutto ciò, questa organizzazione dell’economia, fu distrutta, in uno dei più grandi balzi a ritroso mai visti, a parer mio, nella storia umana. Non concordo con il termine, spesso usato, di “implosione” del Blocco Socialista. Si è operato in realtà una vera e propria destrutturazione volontaria, un’invasione delle economie di questi paesi da parte delle “potenze occidentali” di cui essi sono diventati vere e proprie colonie. E con tale liquefazione sistemica di un’intera fetta del mondo, dall’Europa all’Asia, iniziava il lento abbandono, dismissione e distruzione di milioni e milioni di metri quadri di edifici, architetture – spesso bellissime –, centinaia di migliaia di strutture, ministeri, organismi, società industriali, strutture aerospaziali, impianti culturali e pedagogici, infrastrutture per la ricerca, assetti residenziali… Un genocidio culturale e infrastrutturale.
Con tale cataclisma, si opera la distruzione di apparati d’interi paesi (educazione, sanità, cultura, ricerca, industrie, ecc.) Infrastrutture che non servivano più, o meglio, che non dovevano più servire! Tale abbandono aveva anche il ruolo di servire da traccia, da testimonianza fisica, permanente, di una sconfitta per le popolazioni di quei paesi. Un modo per “rieducare” la popolazione dell’Est. E’ come quando, nel Medio Evo, Monarchie e Chiesa, lasciavano le teste dei condannati a morte, decapitati, per parecchi giorni, appesi a un palo, in mezzo alla piazza, per ricordare alla popolazione il prezzo per l’eresia o per questo o quel crimine.
Questo degrado urbano e abbandono di miglia di edifici, serve anche a dire alle popolazioni dell’Est, abituate sino agli anni 90 ad avere più o meno tutto gratuitamente e garantito (sanità, educazione, ecc.): “ricordatevi che tutto ciò non c’è più e non tornerà, che abbiamo vinto noi e che, ora, siete sotto il regime capitalista: la legge della giungla”. E’ un processo di umiliazione, di depressione collettiva. E’ come un palcoscenico della distruzione sociale, è la traccia del nuovo regime. E questo vale anche per le periferie post-industriali di paesi in fase di de-industrializzazione forzata come l’Italia o buona parte degli Stati Uniti.
-Ci sono due diverse tipologie di turisti: chi programma i suoi viaggi e le sue escursioni attraverso delle agenzie turistiche, e chi è interessato alla ricerca di luoghi nascosti, abbandonati. Negli ultimi tempi si è assistito a una “trasformazione” di questi luoghi abbandonati in luoghi turistici, usati come attrazione dove, alle volte, viene fatta pagare l’entrata come se fosse un museo. Come spiega questo fenomeno?
Il regime capitalista, in questa fase storica, ha un’onnipresenza a livello globale, penetra in ogni poro, ogni istanza e ogni parte della vita delle persone, ogni aspetto delle cose. E’ come l’acqua, cola laddove può, laddove trova spazi, e come in un’esondazione, apre nuove crepe, creando nuove opportunità di passaggio. L’edificio abbandonato –che è un elemento triste, di per sé- spesso vittima di tale sistema disorganico, viene poi assorbito – da rovina – dal sistema economico, e diventa in molti casi feticcio, attrazione macabra, motivo d’interesse turistico, diventa cool e viene mercificato.
Palcoscenici di questo regime violento: dalle periferie delle città statunitensi all’Est Europa, sono ripresi nei film, nelle pubblicità di marche di lusso milanesi, i musicisti fanno i clip, l’arte contemporanea c’installa musei, ecc. Questo abbandono, questi luoghi del “sciattume” sono apprezzati da un sottobosco sociologico raffinato, dai “hipster” ai “bobo” (come li chiamano nel mondo francofono).
Una popolazione giovane cresciuta nel consumo, l’opulenza, ma anche nella defezione e liquefazione generalizzata e sistemica degli aspetti collettivi, che, in realtà, riproduce, attraverso tale interesse per lo spazio dell’abbandono, il piacere auto-imposto dal sistema: amate il mio orizzonte di distruzione, adattatevi, trovatelo “cool”, e fate pic-nic in un aeroporto abbandonato a Berlino; fate un museo in un ex fabbrica, l’importante è che non vi chiediate chi erano gli operai che c’erano questa o quella fabbrica, o perché non tale fabbrica è in abbandono, perché la produzione di questo o quel bene è stata delocalizzata in Cina, per esempio.
E’ una feticizzazione a-critica. L’edificio abbandonato dell’Est in tal caso è visto come “prova” del fallimento dei paesi ad economia pianificata, e mai come prova di un crimine operato dall’occidente.
Se dunque, da un lato, questi luoghi entrano a far parte dell’immaginario collettivo di molti, per altri tipi di turisti o visitatori più coscienti, questi edifici rappresentano un qualcosa di bello, curioso, interessante antropologicamente, storicamente: sono tracce, ferme nel tempo, di periodi passati. Fatte tutte le dovute distinzioni, non vi è differenza tra questa passione e quella che guidò tanti ricercatori, inviati assieme alle truppe napoleoniche, a scoprire le rovine millenarie dell’Egitto, facendo nascere l’egittologia. O la passione che guidava l’Europa intera, per secoli, a visitare le rovine greco-romane nel Grand-Tour italiano.
–In quale altro modo i luoghi abbandonati potrebbero essere utilizzati?
Da architetto, da cittadino, da ex membro di commissione urbanistica a Milano-Centro, da insegnante di progettazione, da ex abitante del quartiere ex-industriale Bovisa, non posso che dire una cosa: un edificio non deve mai essere abbandonato. Mai.
La società dovrebbe operare qualsiasi mezzo per recuperare, restaurare, riutilizzare gli edifici. Spesso si dice che farlo è impossibile, o molto difficile, o economicamente non viabile.
Sono frasi fatte, ripetute e risentite, che il sistema veicola. Come si spendono i soldi, e dove? Perché per un museo ex-novo si spendono milioni, solo per avere la firma di un’archi-stella, e poi non si hanno risorse per salvare un patrimonio architettonico (per esempio, come quello della Bovisa, spazzato via in meno di 10 anni)? Sono scelte che una società opera.
Penso che un edificio conservi memorie, e che queste debbano essere mantenute. È una questione di logica, di progetto collettivo. Ogni sforzo dev’essere fatto per riutilizzare gli edifici abbandonati, un comune, una regione, un paese, non dovrebbe autorizzare alcuna nuova costruzione intanto che vi sono edifici vuoti o in stato d’abbandono. Non foss’altro che una questione di logica economica, ecologica, patrimoniale, storica, culturale. E, su questo, l’Italia, uno dei paesi d’Europa con la più grande superfice di ex industrie abbandonate e dismesse d’Europa ha perso una delle sue tante occasioni storiche.
Quando lavorai con Renzo Piano al progetto dell’Ex Falck di Sesto San Giovanni, una delle più grandi acciaierie del mondo fino agli anni 80 del Novecento, si pose il problema di cosa fare con oltre un milione di metri quadri di fabbriche abbandonate. Nessuno all’epoca –lo stato, in primis- voleva spendere la giusta cifra per recuperare questo che era uno degli spazi industriali più straordinari d’Europa. Soldi che sarebbero tornati indietro, non foss’altro in termini di qualità di vita e/o di turismo, moltiplicati per 10.
Invece, in una società capitalista, si guarda al giorno dopo, mai in prospettive decennali… e si decise di vendere l’acciaio di 100 anni d’industrializzazione, in pacchetti cubici, alla Cina, Ho lottato strenuamente all’interno dello studio, con vere e proprie campagne di dissuasione interne, lasciando documenti e articoli sulla storia industriale di Sesto sul tavolo di Renzo Piano, per salvare più archeologia industriale possibile. Ero solo a difendere tale posizione. Perché? Perché il progetto si faceva a Parigi, a km di distanza, e nessuno di quei architetti sapeva cosa rappresentasse l’ex-Falck in termini di resistenza al nazifascismo e di simboli per la sinistra milanese.
Soprattutto, quelle fabbriche erano viste come un problema, non una risorsa…
Quando, un giorno, in una riunione in cui vi era tutto il gruppo di lavoro dell’ex-Falck, gente come il premio Nobel Carlo Rubbia, il regista Ermanno Olmi e una ventina d’architetti dello studio, Renzo e la proprietà di allora (un tale Zunino), alzai la mano, appena ventenne, e ricordai che quelle erano le ultime tracce di una storia di resistenza gloriosa… Fu allora che Renzo decise di dedicarsi di più al loro mantenimento. Ma non vi era l’appoggio di nessuno, né del sindaco di allora –del nascente PD, partito chiaramente anti-operaista-, né della proprietà, che pensava solo ai soldi. Ora rimane poco o niente dell’ex-Falck, solo ciò che la sovrintendenza ha salvato. E gli speculatori si sono occupati di fagocitare il resto. Ciò che rimane, sarà lì, in mezzo a un parco, come traccia.
-Lei ha mai visitato qualche luogo abbandonato?
Tantissimi, è una mia passione, da sempre. Da bambino, attorno ai 5-6 anni, a Rio de Janeiro, uscivo spesso coi miei amichetti, e andavamo laddove i nostri genitori ci dicevano di non andare. Abitavo a Santa Teresa, in un quartiere modernista chiamato Equitativa. Era circondato da foreste tropicali.
Un giorno –non ricordo come!- ci siamo ritrovati, io e gli amici di gioco, a entrare in un’enorme casa abbandonata. Ricordo che era un’immensa casa coloniale, in legno, credo un ex hotel. Era tutto intatto all’interno, anche il bar era ancora pieno di vecchie bottiglie piene di polvere. Puoi immaginare, in un paese tropicale, dove la natura è potente e inarrestabile, cosa non ci fosse lì dentro tra piante e animali. Eravamo pazzi!
Camminando con cautela e paura, credevo di sentire le vecchie musiche, i rumori del bar, dei piatti, delle persone che chiacchieravano… Salì le scale e mi ritrovai faccia a faccia con un ragno gigante di cui conoscevo l’identità, perché facile da riconoscere dalla macchia rossa: una vedova nera, una delle più pericolose al mondo.
Scappai, a gambe levate, e non tornai mai più. Ma, da allora, cerco di ritrovare quella sensazione di scoperta, perché capii che lì vi erano storie passate, che l’edificio è traccia della nostra storia.
Quando arrivai a Bovisa, appena ventenne, per studiare alla facoltà d’Architettura Civile del Politecnico, scoprì un mondo strepitoso di fabbriche bellissime, tutte in abbandono da pochi anni. Lottai allora, abbastanza solo, con l’appoggio di alcuni gruppi come Rifondazione Comunista, per salvarli, studiarli, valorizzarli. Ora sono stati sostituiti da palazzine anonime da Italietta. Per il progetto dell’Ex-Falck, non lontano da Bovisa (Milano era circondata da una cintura di luoghi abbandonati bellissimi) ho visto cose che tutti avrebbero dovuto vedere un giorno nella vita: fabbriche chilometriche, milioni di metri quadri coperti, opere faraoniche, macchine grandi come interi edifici…
Tracce del lavoro operaio, schede e scartoffie, pannelli per timbrare l’entrata e l’uscita, e migliaia di testimonianze fisiche del quotidiano. Tutto scomparso nel silenzio della stampa e della politica. O, nel peggior dei casi, nel plauso entusiasta di essa. Quando abbiamo presentato il progetto di Renzo Piano alla cittadinanza, abbiamo voluto che tale presentazione fosse fatta all’interno di questa gigantesca città d’industrie abbandonate. Fu commovente vedere i vecchi operai tornare nella loro fabbrica dopo decenni e raccontare ciò che vi succedeva dentro, le colate d’acciaio, i morti, la resistenza… Fu uno dei luoghi più belli mai visti nella mia vita. Ora non c’è più nulla.
In Ex-Iugoslavia ho visto cose magnifiche distrutte dall’abbandono e dalla guerra. Ma ciò che mi colpì di più, nei Balcani, furono le zone circostanti Troian, in Bulgaria. Andai lì a vedere Emilia Emileva, artista ceramista. Troian era una città dalla tradizione secolare nell’arte della ceramica. Il governo bulgaro, durante l’economia di stato, aveva spinto, organizzato tale attività, valorizzandola tramite scuole specializzate, internati per accogliere studenti e artisti da tutto il mondo, fabbriche, atelier, ecc. Soprattutto in piccoli villaggi attorno a Troian, che senza tale attività, sarebbero stati spazzati via dalla mappa.
Con l’arrivo del regime capitalista e dell’Unione Europea fu tutto distrutto, abbandonato o progressivamente dismesso. Scuole, fabbriche, tutto. Tutti a correre a far l’immigrato sottopagato in Italia o Germania.
In alcune parti, villaggi, circondanti Troian (zone come Terziysko, Lovech, Novo Vreme –“Tempo Nuovo”) si ha una sorta di grande deserto umano e culturale. La traccia di quelle fabbriche, ancora piene di migliaia di ceramiche piene di polvere, mi colpì per sempre, perché vidi in modo palese lo stato di guerra silente a cui tali paesi furono sottomessi.
–Quali sono i motivi che spinge la gente a fare loro visita?
Credo che la gente cerchi l’insolito, il diverso, il nuovo, l’eccitazione. E questi luoghi possono proporzionare tali sensazioni.
Inconsciamente, credo che le persone cerchino anche verità, informazioni sui tasselli del passato che ci vengono tolte dalla narrazione mediatica: sui paesi dell’Est, sulle industrie chiuse.
Vi è un carattere comune tra molte di queste mete turistiche, ed è quel mondo del lavoro (la sua rappresentazione, gli Stati operai, ecc.) che molti di questi luoghi rappresentano. Per decenni ci hanno fatto il lavaggio cerebrale ripetendoci dei mantra del tipo “all’Est non c’è niente, è tutto brutto, non funziona nulla, sono tutti infelici” o, ancora oggi, c’è una vocina che ci ripete che le cose che ci circondano, che compriamo ogni giorno, non sono fabbricate da umani; ci fanno quasi credere che sono magiche, appaiono al supermercato già fabbricate, al massimo le fa un folletto cinese.
E credo che vi sia sete, da parte di molti giovani, cresciuti in tale rieducazione culturale, di scoprire i luoghi nascosti dal sistema. Perché le televisioni, i giornali, le riviste patinate, i musei, non parlano mai dei luoghi abbandonati?
– Secondo Lei i luoghi abbandonati dovrebbero essere lasciati a se stessi oppure schedati e documentati?
Il territorio dovrebbe sempre essere governato. Dalla collettività (stato, regioni, comuni) e non dai privati. Il governo del territorio vuol dire ecologia, paesaggio, urbanistica, architettura, infrastrutture, ecc. Ma vuol dire anche e soprattutto patrimonio artistico e culturale. Tutto è patrimonio, anche le cose brutte e inutili che costruiamo oggi lo diventeranno. E lo stato (cioè noi) deve sapere tutto ciò che c’è sul territorio, deve comprenderlo e saperlo usare, valorizzare. Un luogo abbandonato deve essere catalogato, studiato, schedato, documentato, valorizzato. Ma, per far questo, ci vorrebbe un coordinamento tra collettività (noi, i cittadini) e università (pubbliche), agenti culturali (televisioni, musei, ecc., di servizio pubblico). E gli architetti dovrebbero essere al servizio di tale processo, invece di doversi preoccupare solo delle ville delle sciure ricche.
–Ci sono molte vandali che frequentano luoghi abbandonati al solo fine di rovinarli, come pensa che il governo dovrebbe proteggere questi “siti”?
Bisogna capire cosa intendiamo per vandalismo. Sono temi complessi. Spesso questi suono luoghi che diventano gli ultimi luoghi disponibili agli “ultimi”: rom, senza tetto, spacciatori, giovani allo sbando, ecc. Ma anche valvole di sfogo per forme di cultura del sottobosco, che il governo non sa o non vuole valorizzare, a cui non sa dar voce.
Il vandalismo è sempre traccia di qualcosa che non va, esattamente come l’edificio abbandonato. Una società sana non ha vandalismi né fabbriche abbandonate. Lo stabilimento Ferrania disegnato da Julio Lafuente nel 1959 è stato abbandonato nel totale oblio collettivo. È un piccolo capolavoro d’architettura.
Ora è stato trasformato (praticamente distrutto), credo, in un concessionario del Gruppo Volkswagen. In un modo così violento esteticamente, che io chiamerei quello, vandalismo. I proprietari attuali non sanno neanche in che posto si trovano.
Nessuno li denuncia, anzi. Eppure, se si facesse la stessa cosa con una chiesetta –anche bruttina- di fine ottocento, griderebbero tutti al vandalismo. Dipende tutto dalla lente con cui si guardano le cose, e per ora abbiamo la lente dell’ultra liberismo. E sotto tale lente i luoghi di produzione non sono importanti, perché sono luoghi del lavoro, e il lavoro va depresso. Lo stato è complice di tale miopia.
Come può, lo stato, pretendere che non si vandalizzi lo spazio pubblico, mentre vandalizza lui il territorio permettendo che milioni di m.q. siano lasciati così? Come può lo stato reprimere, quando lui stesso crea le condizioni per tale vandalismo (per es., tagliando fondi alla scuola, alla tv di qualità per i giovani, ecc.)?
Se non si porta la gente, la democrazia, la qualità, in quei posti abbandonati, non si potrà che avere vandalismo (di piccoli delinquenti, o di grandi delinquenti, quali speculatori del real estate). Lo stato deve fare lo stato. Cioè, essere amico e buono con chi è vittima, duro con chi fa del male alla collettività. E credo che, qui, il male non lo faccia il piccolo vandalo, ma chi ha delocalizzato e chiuso un’intera fabbrica, o chi ha speculato, abbandonato, ecc.
– Che proposte Lei farebbe per valorizzare questi luoghi abbandonati?
Se non si hanno progetti di riqualificazioni, o soldi per restauri, come spesso accade con strutture molto grandi, una delle possibili soluzioni, soprattutto per il caso italiano, è mantenere tali industrie lì, dove sono, intatte, ferme nel tempo, e trasformarle in luoghi pubblici, in parchi della memoria, in luoghi pubblici. Bisogna pensarli come piazze coperte.
Nel 2012 proposi, con un gruppo di architetti e dottorandi, un progetto per il recupero dell’ex-OTE di Bergamo. Avevamo proposto proprio questo: un enorme parco pubblico in cui le strutture industriali servivano da palcoscenico per future trasformazioni puntuali, poco a poco. Si possono mettere in sicurezza le strutture metalliche, s’illuminano, e si fanno interventi di paesaggismo puntuali. Si ridanno tali posti alla popolazione, con informazioni storiche, ecc.
L’esempio emblematico è quello dei parchi industriali della Ruhr. Questo permetterebbe di salvarle, valorizzarle, senza dover spendere miliardi. Ma in Italia nessuno vuol farlo o nessuno lo fa decentemente. A Torino o a Sesto (Carroponte) ci sono stati piccoli tentativi, ridicoli se comparati a ciò che si è fatto, per esempio, in alcuni siti di estrazione carbonifera in Belgio o in Germania.
E questo perché non c’è un progetto di memoria collettiva, ma, soprattutto, di memoria e orgoglio industriale, memoria che deve essere cancellata ad ogni costo, il prima possibile. Lo Stato passa gran parte del nostro tempo a distruggere il mondo del lavoro, a precarizzare, a spingere (o cedere) alla delocalizzazione, a dire che è meglio una società di servizi piuttosto che essere un paese che produce. L’Italia finisce per odiare le sue fabbriche e gli operai che vi lavorano. Figurarsi le rovine delle fabbriche.
-Ci sono alcuni posti abbandonati che sono soggetti a privatizzazione da parte di privati. Le sembra giusto oppure dovrebbero essere affidati all’amministrazione del comune di pertinenza?
Nessun bene immobile, nessun pezzo di terra, dovrebbe appartenere a nessuno. I beni immobili dovrebbero essere collettivi, in parte o in toto. Si dovrebbe, semmai, pagare solo l’uso per un periodo vitalizio che decade alla morte della persona. L’Italia è il paese con più proprietari. In paesi ben più ricchi e sviluppati, quasi nessuno è proprietario perché gli stati investono in alloggi pubblici. Lo dico perché chi mi sente potrebbe pensare: questo è pazzo, la proprietà della casa è sacra! No. È la terra che è limitata, sacra. La casa è un diritto che dovrebbe essere garantito, come il lavoro. Ma non a scapito del bene comune.
Dunque i luoghi abbandonati rientrano ancor più in tale diritto: il diritto a recuperare ciò che è di tutti e che, per un momento dato, è stato privatizzato, sfruttato, spesso inquinato, per poi essere lasciando solo macerie sociali e fisiche.
Chi abbandona una fabbrica, un luogo dato, merita punizioni esemplari, perché opera un danno alla collettività che è permanente. Ora, tali luoghi, spesso, sono occasioni per grandi operazioni di speculazione edilizia e finanziaria. Ciò non deve succedere.
Dovremmo far in modo che, un bene, se abbandonato, anche nell’attuale ordine giuridico e di proprietà, venga immediatamente ceduto al demanio nazionale, cioè alla Repubblica Italiana, in modo che rientri come tassazione punitiva di tale abbandono. Lo Stato italiano, spende quasi 80 milioni di euro al giorno in spese militari. Forse farebbe meglio spendere una parte di questi soldi per riqualificare il territorio e il suo patrimonio edilizio, no? Un giorno di NATO è più che sufficiente per recuperare aree dismesse da milioni di metri quadri.
Questo forum è molto utile
Grazie molte!