Il castello degli specchi

Tutto d’un tratto il silenzio si fa più profondo, e da uno dei muri levigati bianco cenere ne esce il calco rosso di un viso.

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Posizione

Il castello abbandonato si trova non molto distante dal confine con la regione di Île-de-France. Entrare nella proprietà e negli interni della villa è piuttosto facile. Fate attenzione a un probabile guardiano il quale, in sua assenza, ha lasciato come monito agli intrusi un foglietto con su scritti diversi avvertimenti.

Storia

Il “Château de la Côte” è uno degli annessi del “Château Menier” o “Tournebride”. Il castello fu progettato nel 1913 dall’architetto Charles Léon Stephen Sauvestre per conto di George Menier, un famoso industriale del cioccolato.

Durante la Seconda guerra mondiale il castello fu occupato dalla Germania nazista. Nel febbraio del 1944, inaugurato personalmente da Heinrich Himmler, diventò l’unico Lebensborn esistente in tutto il territorio francese. Questo Lebensborn era un ospedale maternità che ospitava donne francesi, olandesi, belghe o norvegesi incinte di ufficiali delle SS. l Progetto Lebensborn (Progetto Sorgente di Vita) fu uno dei diversi programmi avviati dal gerarca nazista Heinrich Himmler per realizzare le teorie eugenetiche del Terzo Reich sulla razza ariana e portare la popolazione ariana in Germania a 120 milioni di persone entro il 1980. Pochi mesi dopo la nascita il loro bambino veniva mandato in Germania per essere adottato.

Nel “Château de la Côte” risiedeva la Schutzpolizei, responsabile della sorveglianza e della sicurezza del sito. Le madri e i neonati invece vivevano nel ‘Château Menier’.

Finita la Seconda guerra mondiale, nel 1955, il castello fu adibito a centro riabilitazione per bambini. Nel 1967 passa di proprietà alla Croce Rossa.

Fonti secondarie raccontano che per 10 anni ci sono state lotte interne per la proprietà dell’immobile. Per il momento l’edificio principale viene usato come set cinematografico. All’interno è stato posizionato un pianoforte per girare alcune scene del film “Taken 3”. La serie televisiva “un village français” fu parzialmente girata nel castello.
Tra gli urbexer il posto è conosciuto come la “Manoir aux cerfs” perchè vi furono introdotti alcuni cervi nel parco.

Descrizione

Un’entrata senza problemi prospetta un’esplorazione piuttosto semplice.

All’inizio mi dirigo all’interno di una casetta a un piano, introducendomi dalla parte sbagliata. Inutilmente sono passato attraverso una finestra per metà rotta quando la porta d’entrata era aperta. Una macchina da cucire e un armadio con diversi documenti dell’assicurazione mi aspettano al primo piano. Probabilmente questa abitazione apparteneva al custode della villa.

“Una casa fatta proprio a misura d’uomo” commento tra me e me.

Proseguo per il viale alberato, inondato dalle foglie che mosse dal vento continuano a cadere e a formare strato per strato un sottile cuscino. Il cielo è minaccioso, e quasi fosse un monito a non entrare nella proprietà si mostra in tutto il suo vigore e veemenza.

Ai lati del giardino ci sono le stalle e il porcile, ora utilizzati come ripostiglio. Poco più in là la serra con tutti vasi di terracotta sparsi per il cortile e le scuderie.

Nel momento in cui mi avvicino alla villa, sento una presenza che si aggira nei dintorni. La mia inquietudine trova conferma in un foglietto rimasto attaccato al portone d’entrata, che ammonisce i visitatori non graditi ad abbandonare l’area. “Sono qui vicino” o “abito qui, dentro la villa”, mi mette subito in soggezione. Ripensandoci razionalmente, riporto tutto al presente, e mi convinco del fatto che quel foglio serva solo per spaventare gli intrusi, nient’altro.

Faccio il giro della villa per trovare un’entrata, ed ecco che nel retro trovo la porta aperta.

Apro, e mi ritrovo davanti a uno scenario spettacolare: un pianoforte con dietro il dipinto di una nobile signora in posa. Sotto il camino, il pavimento in legno e delle colonne ai lati della stanza. Tutto enormemente spazioso, e passando di stanza in stanza mi accordo di quanto sia un peccato che tutto questo sia abbandonato. Porte enorme, finestre larghissime e camini ovunque per riscaldare questi spazi immensi.

Il primo piano si articola in diverse stanze, e si può godere della vista della stanza-scacchiera. Il più è stato già preso e svuotato di ogni cosa, e solo alcuni armadi sono rimasti.

Al secondo piano il castello mi fa prendere uno spavento. In un angolo della stanza un manichino tutto fiero e impettito.

Che ci sia da fidarsi? Ah, un fedele amico fino a quando scoprirà che può andare solo e i primi passi muoverà.

Nel mentre il vento soffia, e si vuole far sentire. Appositamente ha slacciato dei teli di plastica da alcune finestre per farli sbattere violentemente tra di loro.

Dove sarà mai il vento quando non soffia?

All’ultimo piano, nel tetto, dopo aver mosso un chiavistello che tiene ferma una porticina in legno vengo nuovamente afferrato dal vento e catapultato per terra. Tutto attorno verde, e il vento restituisce al cielo la sua luce. Tetro, fosco e affascinante. Proprio ora, nel momento in cui il vento spinge più forte, mi sento tranquillo e calmo. Quasi fossi cullato da tutta quest’aria mi lascio andare.

Ritornando all’entrata, giù per gli scalini, mi ricordo dei sotterranei. Ed eccomi nell’entroterra, dove le pareti trasudano sudore, e le anguste porte attendono nell’oscurità. M’imbatto in quella che doveva essere la cucina, e il reparto dove le carni venivano tenute prima di essere macellate.

Altre stanze buie contribuiscono a alimentare un’atmosfera cupa e tenebrosa.

Nonostante tutto, i sotterranei sono l’unico luogo del castello dove non ho la sensazione di essere spiato. Detto ciò, ritorno al piano terra per fare le ultime foto.

In ogni dove, il mio stesso riflesso mi segue. Gli specchi si ripetono continuamente, senza sosta, e creano un doppione di me stesso che mi pedina ovunque. Come diceva lo scrittore e drammaturgo Bernard Shaw, si usa uno specchio di vetro per guardare il viso e si usano le opere d’arte per guardare la propria anima. Aggiungo che lo specchio ha significato ancora più profondo, che risponde a certe nostre esigenze, e allo stesso tempo le moltiplica e le alimenta.

A un certo punto mi sento intrappolato, ed ecco che vedo qualcosa emergere dal muro. Esce una sostanza color rossastro, che lentamente prende la forma di una faccia….la mia.

Chi osserva chi? E’ un ghigno quello? Un sorriso leggermente accennato?

Una consapevolezza reciproca. Chiudo gli occhi, e quando li riapro sono io quello che imprigionato dentro al muro. Un ragazzo vestito di blu e con la faccia dipinta di rosso mi guarda, e saltella via. Provo ad urlare ma non ci riesco, non c’ho voce. L’ultima cosa che sento sono i rintocchi dei suoi tacchi a rocchetto.

Sulla mappa:

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