Ci sentivamo proprio come nel film “Stalker” di Andrej Tarkovsky: una zona da raggiungere e l’ambiente circostante che lentamente ci logorava. Una strada impervia e a tratti non percorribile se non a piedi, che gradualmente ci portava allo stremo delle nostre forze.
Posizione
I villaggi abbandonati si trovano a 70km da Pietroburgo, Russia. Per orientarsi bisogna prendere come punto di riferimento il villaggio urbano di Naziya (Назия). Dopo quest’ultimo centro abitato incomincerà il viaggio indietro nel tempo.
Storia
La leggenda narra che un gruppo di americani giunse in questi villaggi nel 1933 con lo scopo di estrarre la torba. Furono costruiti un totale di 8 villaggi, 5 dei quali sono sopravissuti e gli altri vennero distrutti durante la WW2. L’area che corrispondeva a questi 8 villaggi veniva chiamata “America”.
A contestare e negare tutto ciò ci sono gli abitanti del luogo, I quali sostengono di non aver mai avvistato americani nella loro zona.
“In principio c’era un solo villaggio il quale distava 5 km da casa nostra e che dovevamo raggiungere ogni giorno a piedi. Da quel momento cominciammo a chiamarlo America per via della distanza che dovevamo percorrere,” ci comunica Alexander Spirin.
Sebbene la guerra fermò l’estrazione di torba, 30 anni dopo (1960) riprese ancora con più vigore: furono costruite diverse fabbriche di alimenti e diversi negozi. Tutto continuò fino agli anni 80, periodo in cui non ci fù più bisogno della torba e così gli operai iniziarono a spostarsi dalle loro case per andare a vivere nelle città vicine.
Descrizione
Il primo villaggio siamo riusciti a raggiungerlo in macchina, con qualche ora di ritardo e un paio di scarpe con “20cm centimetri di fango” sul tacco. Per nostra sfortuna la zona circostante è un tutt’uno con l’acqua- un vero e proprio acquitrino, quasi fosse Venezia prima di essere bonificata.
Per raggiungere il primo casolare abbandonato siamo costretti a passare per una stradina che ci conduce nel mezzo di una dozzina di casette abitate. La nostra curiosità da persone d’altro mondo ci porta a indagare come vive questa gente. Il papà che spinge i figli nell’altalena, il cane alla sua sinistra che abbaia e una signora anziana che osserva il tutto da dentro il calduccio della sua izba: potremmo dipingere in un quadro quell’istante.
Procediamo attraverso il sentiero battuto per passare vicino a una specie di bunker interrato, vicino c’è un cratere simile a quello provocato dall’esplosione di una bomba, per poi giungere davanti al primo casolare abbandonato.
La casetta cade quasi a pezzi, ma è rimasto ancora qualcosa al suo interno. Pentole, padelle, calendari, un armadio e qualche vestito, il resto è stato portato via. Il soffitto in alcuni punti ha ceduto, più che altro però dobbiamo stare attenti a ciò che “giace” sotto i nostri piedi. Più di una volta mi sono ritrovato con un “piede nella fossa”.
Seguendo il sentiero c’imbattiamo nuovamente in un’altra casa, ugualmente deteriorata dal tempo. Il pavimento in legno è inzuppato d’acqua e in alcuni punti completamente marcio, assume un color scuro quasi nero.
Al suo interno però ci aspetta qualcosa di sorprendente. In cucina, nel soggiorno e nel letto troviamo residui, foto, bottoni, ricordi e libri di un recente passato. Nella nostra mente appare un’immagine in bianco e nero e, come se ci trovassimo in un cortometraggio, guardiamo le vite di questa gente. La mamma che cuciva, la sorella e il fratello che saltavano nel letto, il padre che ritornava a casa dalla caccia, il micio vicino alla stufa. Ora rimane solo il calco dei loro fantasmi improntato nei muri.
Non osiamo entrare nel soppalco immerso dalla polvere e ragnatele, così usciamo di casa e ci avviciniamo al pozzo per osservare l’acqua torpida che giace immobile nel fondo. Usciti dal recinto facciamo la strada a ritroso e ritorniamo alla macchina.
“Non rimangono molte ore prima del calar del sole” comunico a Nastia.
Marina e Alex nel frattempo sono già entrati in auto, pronti per altri sbalzi, scivolate nelle pozzanghere e un interminabile su e giù tra le varie buche scavate nel terreno dalla pioggia.
È fu così che abbiamo iniziato a marciare, tra uno scossone e l’altro, uno sbalzo e un immersione, trovando il nostro pane quotidiano.
A un certo punto decidiamo di lasciare la macchina in un angolo della strada e proseguire a piedi.
L’aria si fa più densa col calar del sole, e il freddo comincia ad arrampicarsi su per le caviglie.
Decidiamo di accelerare il passo cosicché alle 16:30 giungiamo al secondo villaggio.
Ci troviamo di fronte a una schiera di case in legno abbandonate. Controlliamo le entrate, ma purtroppo tutte sono state in un modo o nell’altro sigillate. Poco distante due camioncini ci fanno ritornare ai tempi dell’Unione sovietica. Perpendicolari alla schiera di case abbandonate ne adocchiamo altre due, deliziose e molto semplici, che però non hanno l’aria di essere disabitate
Ci allontaniamo da questo piccolo agglomerato per ritornare nella “strada maestra”. Passiamo davanti a una izba molto suggestivo, che si erige all’incrocio tra due strade e nel mezzo di una triade di pini. Nell’albero più adiacente a noi aleggia a mezz’aria quella che sembra essere una casetta per uccelli.
L’interno dell’abitazione è vuoto e un ammasso di mobili blocca quello che potrebbe essere l’accesso allo scantinato.
Proseguendo c’imbattiamo in una specie di torre, eretta completamente in tronchi di legno, con il solo probabile scopo di funzionare come magazzino.
Attraversiamo un ponticello a sua volta in legno. Optiamo per fermarci qualche decina di minuti per uno spuntino e poi ritornare alla macchina. Proprio nel bel mezzo del nostro pranzo vediamo in lontananza, appena uscito da una schiera di case, un animale a quattro zampe. La mia vista non è delle migliori ma i nostri compagni intuiscono subito che è un cane. Appena quest’ultimo ci vede non ci pensa due volte a correrci felice incontro, saltandoci addosso e perfino rubandoci un’arancia. Con nostra fortuna il padrone è un tipo amichevole e allegramente incomincia a parlare con il nostro gruppo.
“Sapete, il mio amico ha una macchina e potrebbe accompagnarvi alla vostra. Dovrebbero partire tra un paio di minuti” ci comunica il signore dal sopracciglio folto e nero.
Ringraziamo e subito dopo ci avviamo verso l’auto.
“Sarebbe stato bello dormire e conoscere meglio questa zona e la quotidianità di questa gente” sussurra Jacopo a Nastia.
Troppo tardi.
Nella via di ritorno veniamo avvolti dall’oscurità e dal silenzio, dal buio e dal gelo, dal mistero e dalla curiosità. Un mondo che non molti hanno visto e vissuto, dove i pochi abitanti rimasti sperduti nel mezzo di questi acquitrini sperimentano ogni giorno.